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Capitolo 3 – LE CAREZZE

LE CAREZZE

Il termine carezza fa subito pensare a un gesto affettuoso, al toccare amorevolmente qualcuno o all’essere toccati amorevolmente da qualcuno. Ci riporta ai ricordi di teneri momenti dell’infanzia in cui le mamme, i papà, le nonne o i nonni ci regalavano le coccole. Da giovani, agli scambi di tenerezze infinite tra innamorati e, da adulti, ai momenti di intimità con il proprio partner, e non solo a questi ovviamente.

In realtà il termine stroke adottato originariamente da Eric Berne riveste più pienamente il significato che ha tale concetto nella teoria dell’Analisi Transazionale (A.T.). La parola inglese stroke che alla lettera vuol dire “colpo, colpetto” comprende sia la valenza positiva di caress (carezza) sia la valenza negativa di blow, hit (colpo, botta).

 

Nella lingua italiana non esiste una traduzione realmente appropriata che contenga entrambi i significati e la scelta di tradurre il termine stroke con “carezza”, ha privilegiato il lato positivo affettivo di questo concetto. Perciò pur utilizzando la parola italiana carezza è doveroso ricordare il significato più ampio ad essa sotteso. Ricordiamo inoltre perché è stato individuato proprio questo termine in origine: “Il termine carezza (in originale stroke) è stato scelto da David Kupfer, uno dei fondatori dell’A.T., in ricordo del fatto che nei primi tre mesi di vita il bambino ha con la madre un rapporto a livello profondo-globale cenestesico. Poiché il contatto cenestesico è originariamente essenziale alla sopravvivenza dell’individuo, lo scambio di carezze permane come una delle attività umane più importanti.” (Moiso e Novellino, 1982; pag. 33).

In A.T. per carezza si intende “una unità di riconoscimento che procura stimolazioni ad un individuo” (Woollams e Brown, 1978; pag. 75). Qualsiasi cosa, gesto, espressione, parola che equivale a riconoscere l’esistenza dell’altra persona, come dire “ti vedo, so che ci sei”. “Da questo punto di vista ogni messaggio che gli altri ci mandano, anche se sgradevole nel contenuto, rappresenta un segnale di grande valore: sul piano sensoriale come risposta al bisogno di stimoli, sul piano affettivo come indicazione che per gli altri noi esistiamo.” (Ricardi, 1997). Sia che si tratti di stimolazioni che producono piacere o viceversa di stimolazioni che producono dolore fisico o psicologico, qualunque stimolazione sembra essere meglio del niente. Molte ricerche condotte su animali come topi e scimmie e importanti ricerche dell’età evolutiva (si pensi agli studi intorno agli anni “40 di René Spitz sui bambini degli orfanotrofi) hanno dimostrato che la privazione di stimoli fisici (in presenza di cibo s’intende) ai neonati può degenerare fino a condurre a gravi stati di malattia e alla morte.

In questo senso, Eric Berne fa un parallelo fra la fame di cibo e la fame di stimoli (fisici, sensoriali ed emotivi), entrambe importanti dal punto di vista della sopravvivenza biologica e psicologica dell’individuo. Man mano che la persona diventa adulta, la fame di stimolo si trasforma per così dire in fame di riconoscimento, ovvero quei bisogni di contatto fisico così importanti nell’infanzia diventano sempre più sublimati attraverso altre modalità più sottili, indirette e simboliche che permettono di ottenere riconoscimento dagli altri (ad esempio un sorriso, un’occhiata storta, una critica, un complimento, ecc.). Berne estende il termine “carezza” che comunemente indica un intimo contatto fisico fino al significato ampio di contatto anche simbolico tra le persone, ovvero “unità di riconoscimento” oppure “unità fondamentale dell’azione sociale”.

Possiamo allora dire che qualsiasi scambio tra le persone, qualsiasi transazione, rappresenta uno scambio di carezze.

Quali tipi di carezze possiamo riconoscere?

  • Carezze esterne (interpersonali) e carezze interne (intrapsichiche). Le carezze esterne sono quelle che riceviamo dalle altre persone (una stretta di mano, un sorriso, una o più parole, ecc.) ed anche dagli animali (il nostro cane che ci corre incontro appena rientriamo a casa o le fusa che ci regala il nostro gattino, ecc.). Le carezze interne derivano dall’autostimolazione e dall’autocarezzarsi sia fisicamente (es. mi massaggio i piedi stanchi) sia con un dialogo interno (es. mi dico: “Forza che ce la fai!”) e possono quindi utilizzare modalità uditive (musica, suoni o rumori della natura, ecc.), visive (i colori, il tramonto, ecc.), cinestesiche (tattili come mangiarsi le unghie, masturbarsi, ecc.; propriocettive come la danza, la corsa, ecc.), olfattive(un profumo, vari odori, ecc.), gustative (diversi cibi, ecc.), conoscitive (ricordare, pensare, fantasticare) [Woollams e Brown, 1978]. Le carezze interne possono funzionare un po’ come una banca di credito che custodisce un gruzzolo di carezze positive a cui possiamo accedere quando ne abbiamo bisogno. È importante ricercare e mantenere un buon equilibrio tra carezze esterne e carezze interne perché si possano complementare freschezza, novità e dinamicità delle prime con sicurezza, stabilità e autonomia delle seconde.
  • A seconda della modalità di espressione si distinguono carezze verbali e carezze non verbali (fisiche e mimiche). La distinzione è facilmente comprensibile. Se un semplice “Ciao!” oppure una qualunque frase rivolta a una persona rappresenta una carezza verbale; un sorriso, una stretta di mano o uno schiaffo, “un pugno o una carezza” rappresentano invece carezze fisiche. Claude Steiner parla anche di “carezze operative” come il fare un regalo oppure il semplice dare ascolto a un amico, ecc. Perché una carezza risulti efficace è importante vi sia congruenzatra il messaggio verbale e quello non verbale. Un “ti amo” con lo sguardo distratto e il corpo fisicamente distante e freddo non ha certamente lo stesso effetto di un “ti amo” con gli occhi negli occhi dell’amato e il corpo vicino e sciolto.
  • A seconda dell’intenzione di chi le fa e del piacere di chi le riceve, si distinguono carezze positive e negative. Si può supporre si tratti di carezze positive nel caso ti dica “Ti voglio tanto bene” o ti abbracci calorosamente. Si può supporre si tratti di carezze negative nel caso ti dica “Non ti sopporto proprio” o ti allontani bruscamente appena ti avvicini. Le carezze negative, il cui effetto è quindi spiacevole per colui che le riceve, risultano esercitare un potere maggiorerispetto alle carezze positive. Detto in termini spiccioli, un “ti odio” ci brucia molto di più di quanto percepiamo intensamente un “ti amo”; così come un solo pugno ricevuto dal nostro amante risulta molto più potente di quanto lo siano i milioni di baci che ci ha dato. La spiegazione sembrerebbe da un lato molto semplice ed evidente, nel senso che “Il nostro istinto di sopravvivenza esige che reagiamo agli stimoli negativi con più immediatezza ed energia di quanta ce ne occorra per quelli positivi” (Woollams e Brown, 1978; pag. 85). Dobbiamo essere in qualche modo pronti a difenderci perché gli stimoli negativi possono minare la nostra stessa sopravvivenza. Quindi pur desiderando carezze positive, dobbiamo mantenere l’allerta su quelle negative.

Può accadere che l’intenzione di fare una carezza positiva non sia recepita da colui che la riceve e che la consideri invece negativa, cioè spiacevole per sé. Le carezze e le modalità di fare e gestire le carezze vengono apprese innanzitutto nella famiglia e in generale nell’ambiente dove il bambino cresce. In base a tali esperienze pregresse, l’adulto può adottare un filtro di carezzeche possiamo immaginare lungo un continuum che va da un filtro a maglie molto larghe, quando ha appreso ad essere sempre fiducioso e iperdisponibile ad accettare qualunque carezza, ad un filtro a maglie molto strette, quando non è affatto disponibile a far entrare alcun tipo di carezza. Se nel primo caso la persona rischia di perdere il proprio baricentro e di fluttuare a seconda delle carezze che riceve e sempre accetta, nel secondo caso la persona rischia di non lasciar passare carezze positive interpretandole a priori ed ingiustamente come negative. Le giustificazioni della mente in questi casi possono davvero essere le più fantasiose. Basta pensare all’esempio di un uomo che è convinto di sbagliare sempre in tutto ciò che fa (così sembra aver appreso fin da piccolo in famiglia) e quando il suo capo reparto si congratula sinceramente per come ha svolto il suo ultimo compito, lui risponde “Sì, sì” dicendosi invece “Ho fatto schifo come al solito e il capo si prende pure gioco di me”; ipotizziamo con il rischio da lì a breve di sentirsi ancor più demotivato, pronto quindi a commettere realmente più errori e infine a licenziarsi o a farsi licenziare.

Chiaramente ci sono poi i casi in cui realmente sono date carezze insincere, che Berne definiscecarezze di plastica, così come le situazioni in cui qualcuno prima offre una carezza positiva per poi colpire con una frecciata acida sul finale che spenge ogni positività (es. “Ti sta proprio bene quel vestito, è un amore … te l’avrà regalato qualcuno che ha buon gusto perché non è come quei vestitini che ti compri al mercato”).

  • A seconda della direzione possiamo distinguere carezze condizionate e incondizionate. Lecarezze condizionate sono dirette al comportamento, sono quelle che riguardano il fare o l’avere (“Hai fatto davvero un bel lavoro” oppure “non mi piace come hai apparecchiato la tavola”). Le carezze incondizionate sono dirette all’essere della persona (“mi piaci”, “sei un vero amico” oppure “ti odio”, “sei un mostro”). È molto utile tenere presente che le carezze incondizionate negative risultano non costruttive e spesso portano i bambini a mettere in scena copioni di vita distruttivi.

Nell’educazione di un bambino, ed anche nel modo in cui ci trattiamo tra adulti, è molto importante e utile rimanere attinenti alla realtà quando diamo la nostra valutazione rispetto a qualcosa. Se ad esempio mio figlio prende un brutto voto a scuola, questo significa che probabilmente ha sbagliato diverse cose nel compito che ha fatto ed è utile che io mi soffermi su questo dato reale insieme a lui, magari tenendo conto del dispiacere che prova per il brutto voto ed aiutandolo a vedere l’importanza di apprendere meglio ciò che sicuramente non aveva capito o non aveva studiato. Se invece dico a mio figlio “Sei proprio uno stupido” (carezza incondizionata negativa), magari aggiungo generalizzazioni del tipo “Non capisci proprio niente, sei intelligente zero, come tuo padre del resto” (ancora carezze negative incondizionate), posso prevedere che a suon di sentire questa musica, mio figlio interiorizzerà questi messaggi credendoci e adeguandosi pienamente a queste convinzioni, confermandole man mano che andrà avanti, comportandosi ancor più da stupido. Nell’ipotesi forse migliore, il suo stato dell’Io Bambino Adattato potrebbe scegliere la strada della ribellione, decidendo di impegnarsi oltre misura nella sua vita per dimostrare proprio il contrario “non sono affatto stupido”, pur sempre allontanandosi dal suo modo naturale di essere, dalle sue reali aspirazioni e facendo in tal senso il combattente infelice per tutta la vita.

Dal bisogno di riconoscimento al bisogno di strutturare il tempo

Già Abraham Maslow intorno alla metà del 1900 propose una teoria sulla gerarchia dei bisogni umani. A suo avviso, prima di poter soddisfare i bisogni di autorealizzazione (ovvero di piena espressione di sé e di creatività), l’uomo deve necessariamente aver soddisfatti in misura sufficiente i cosiddetti bisogni da carenza, a partire dai bisogni fisiologici, poi i bisogni di sicurezza, poi i bisogni di amore e di appartenenza ed infine i bisogni di stima.

Così, Eric Berne parte dal bisogno di stimolazione sul piano fisiologico, sensoriale ed emotivo per giungere al bisogno di riconoscimento che ancor più ingloba la dimensione interpersonale. Poiché l’uomo ha la capacità di pensarsi nel futuro e quindi di orientare nel suo modo unico e personale la ricerca di stimoli e di riconoscimenti, percepisce il bisogno di strutturare il tempo. Berne distingue in proposito sei modalità, delineando vantaggi e svantaggi di ciascuna. Tutti abbiamo certamente sperimentato ciascuna modalità, sebbene ogni individuo si distingua per le preferenze qualitative e quantitative con cui struttura il suo tempo.

Di seguito presento un elenco sintetico.

1) Isolamento

Scelgo di stare solo con me stesso, non mi coinvolgo con gli altri. Le uniche carezze che posso dare o ricevere sono a me stesso; evito il rischio psicologico di essere rifiutato dalle altre persone; corro il rischio di esaurire la mia “banca di carezze” e di sentirmi svuotato o immobile.

2) Rituali

Comprendono tutte le interazioni socialmente programmate in cui è necessario seguire delle regole condivise (es. i saluti, le cerimonie ufficiali o i riti religiosi, ecc.). Danno carezze positive e prevedibili, seppure poco intense.

3) Passatempi

Il contenuto non è così programmato e rigido come nel rituale, tuttavia procede in modo piuttosto familiare. Forniscono carezze per lo più positive ma anche negative; servono inoltre come mezzo per esplorare l’altro e scegliere le persone con cui intendiamo impegnarci in forme di scambio di carezze più significative. Esempi sono il “Cocktail party”; “General Motors” per gli uomini; “Cucina” e “Guardaroba” per le donne, ecc.

4) Attività

La comunicazione è diretta al raggiungimento di uno scopo e non al semplice parlare di esso; la motivazione di fondo è data dal bisogno di agire sulla realtà. Lo stato dell’Io predominante è l’Adulto; le carezze possono essere positive o negative condizionate. Esempi riguardano il luogo di lavoro, le attività domestiche, lo sport, suonare uno strumento musicale, ecc.

5) Giochi

Un “gioco” in termini di A.T. è un qualcosa di ripetitivo che termina con una sensazione di malessere e che in un qualche momento comporta la seguente domanda “Cos’è successo?” e la sensazione di aver cambiato in qualche modo di ruolo. Tutti i giochi sono riproposizioni di strategie infantili non più adatte a noi come persone adulte. I giochi comportano sempre uno scambio di svalutazioni, a livello psicologico. L’intera serie delle transazioni ulteriori rimane al di fuori della consapevolezza dell’Adulto dei giocatori. Il tema dei “giochi” sarà oggetto di un successivo capitolo per cui mi limito qui a questa definizione sommaria. Sarà per il momento sufficiente tenere presente che “il gioco psicologico è il procedimento usuale impiegato per ottenere carezze negative” (Moiso e Novellino, 1982; pag. 38).

6)   Intimità

Diversamente dai “giochi” qui non ci sono “messaggi segreti”; livello sociale e psicologico sono congruenti; ci sentiamo liberi di esprimere le nostre vere emozioni e desideri senza censurarli. Le carezze che si scambiano nell’intimità sono le più intense; possono essere positive o negative ma non vi sarà svalutazione di sé, dell’altro o della situazione. È sicuramente la modalità di strutturare il tempo più imprevedibile e rischiosa. Nell’intimità sessuale o personale può darsi che condividiamo emozioni e desideri autentici, ma non è detto che sia così. Spesso i “giochi” sono usati come sostituti dell’intimità. Anziché giochi e manovre di potere, nell’intimità vi è “lo scambio di carezze, tanto più ricco quanto più a comunicare sono i Bambini, con la presenza dell’Adulto che sa quello che fa e del Genitore che approva.” (Ricardi, 199, ag. 38).

Regole non scritte sulle carezze

Claude Steiner è stato allievo di Eric Berne e si è occupato in modo particolare di sviluppare il concetto di carezze (strokes) fino a elaborare un’ampia teoria sulla gestione delle carezze e sull’alfabetizzazione emotiva (Steiner, 1997). Insieme alla femminista Hogie Wyckoff è stato uno dei principali esponenti e fondatori del Radical Approch to Psychiatry (Movimento di Psichiatria Radicale) in America. Ha creato un gruppo “di contatto” divenuto famoso con il nome di “Città delle carezze: uno spazio aperto per la libera espressione dell’amore” a cui ha fatto seguito un approccio di lavoro man mano più affinato portato avanti nei workshop sull’educazione emotiva. Riprende alcuni aspetti cruciali trattati da Daniel Goleman (1995) nel suo best-seller sull’intelligenza emotiva, partendo dalle basi teoriche dell’A.T. e traducendo in passi concreti e praticabili l’apprendimento delle competenze emotive.

Il suo punto di partenza, a cui accennerò in questa sede, è l’osservazione di come nel mondo occidentale i bambini crescano in famiglie che vivono seguendo regole non scritte assai restrittive sulla gestione delle carezze. In breve le regole alla base di questa economia di carezze sono le seguenti:

  1. Non dare le carezze che vorresti dare

Esempi di messaggi del Genitore Critico che sostengono questa regola: “Sono goffo e incapace di formulare nel modo giusto quello che mi viene da dire”, “Se l’altro non vuole, faccio la figura dello stupido”, “Penserà a un’avance sessuale”, ecc.

  1. Non chiedere le carezze che vorresti

Esempi di messaggi del Genitore Critico che sostengono questa regola: “Tanto le carezze che chiedo non valgono quanto quelle date spontaneamente”, “Mi dirà qualcosa tanto per compiacermi”, “Mi considererà un piagnone”, ecc.

  1. Non accettare le carezze che desideri

Esempi di messaggi del Genitore Critico che sostengono questa regola: “Sarei vanitoso e presuntuoso”, “E’ solo un suo modo di essere gentile”, “Vorrà certamente qualcosa in cambio”, “Non me lo merito!”, “Figurati se è vero … e poi mi conosce appena”, ecc.

  1. Non rifiutare le carezze che non vuoi

Esempi di messaggi del Genitore Critico che sostengono questa regola: “Passerei per una troppo scortese a rifiutare le sue avance”, “Potrebbe fraintendere il mio rifiuto e non parlarmi più”, “Gli altri hanno sempre ragione e in fondo mi conoscono meglio di come posso conoscermi io”, ecc.

  1. Non fare carezze a te stesso

Esempi di messaggi del Genitore Critico che sostengono questa regola: “Sarei solo un gran presuntuoso”, “Non posso umiliarmi così”, “Sarei proprio uno sciocco a dirmi bravo da solo”, ecc.

Contrariamente a queste false convinzioni, Steiner insegna ad esercitarsi a sviluppare la capacità di:

ü  Dare carezze: offrire sincere dimostrazioni di affetto.

ü  Chiedere carezze: chiedere le carezze di cui abbiamo bisogno, decidendo che cosa chiedere e a chi (tenendo conto del semplice fatto che spesso le persone non hanno a loro volta imparato a dirci quello che vorremmo sentirci dire, nonostante possano pensarlo realmente).

ü  Accettare e rifiutare carezze: accettare le carezze desiderate, senza sottovalutarle o filtrarle secondo i nostri vecchi schemi di pensiero; saper rifiutare delicatamente e con la dovuta attenzione all’altro anche le carezze indesiderate.

ü  Dare carezze a se stessi: aumentare la propria fiducia attraverso un sano amore per se stessi.

Per concludere …

Per concludere vorrei soffermarmi brevemente su alcune riflessioni importanti.

La prima concerne il perché rimaniamo talvolta all’interno di relazioni dolorose dalle quali ricaviamo soltanto carezze negative. La teoria dell’A.T. del copione di vita che vedremo nei prossimi capitoli e la teoria della Gestalt1 si complementano nell’aiutarci a capire questo aspetto. Già avevamo accennato a quanto le carezze sono un bisogno fondamentale vitale. Piuttosto che non riceverne, siamo disponibili ad accettare carezze negative e si può addirittura imparare a ricercarle di negative. È un po’ come chi sta per morire di sete e di fame e per garantirsi la sopravvivenza beve l’acqua inquinata e mangia il cibo avariato. Le modalità di sopravvivenza apprese nelle fasi cruciali dello sviluppo tendono a stabilizzarsi in schemi ripetitivi che continuiamo a mettere in atto, spesso inconsapevolmente, anche quando le condizioni esterne sono notevolmente cambiate rispetto a quelle originarie. I bisogni importanti che sono rimasti a lungo insoddisfatti continueranno a ricercare una via di realizzazione. Fintanto che tale Gestalt non sarà chiusa, andremo inevitabilmente a ricercare situazioni e persone simili a quelle originarie nelle quali metteremo molte delle nostre energie per arrivare ad una soluzione. Purtroppo però spesso adotteremo le stesse strategie che abbiamo adottato in passato, sentendoci all’interno di un circolo vizioso dal quale non sappiamo come uscire. Tentare nuove vie di soluzione significa già potersi affacciare al di fuori del circolo vizioso, ma proprio a quel punto sarà fondamentale non ricadere nella svalutazione delle nuove possibilità, ricordandoci che è naturale che tutto ciò che è nuovo e che non abbiamo ancora sperimentato sulla nostra pelle, ci spaventi profondamente e ci faccia sentire insicuri e sfiduciati. Possiamo affrontare le nostre paure solo ascoltandole e vivendole profondamente, con paura appunto, ma senza ritirarsi.

Altra riflessione riguarda la distinzione che abbiamo fatto tra carezze positive e carezze negative, sulle quali è utile aggiungere due parole. In psicologia e in A.T. spesso si accentua l’importanza di offrire carezze positive, chiaramente genuine (presupposto fondamentale), proprio perché osservando la nostra cultura si è notato spesso uno squilibrio nel sottolineare ciò che non va a scapito del riconoscere ciò che è ok. Tra l’altro la psicologia e la psicopedagogia hanno più volte sottolineato quanto sia più efficace promuovere comportamenti positivi premiando e valorizzando le capacità e le risorse individuali, anziché attribuendo svalutazioni e punizioni. Tuttavia è importante non cadere nella tentazione di identificare le carezze positive come “buone” e viceversa le carezze negative come “cattive”. Infatti, entrambi i tipi di carezze, sia che risultino piacevoli o spiacevoli a chi le riceve, sono importanti per la crescita personale. Ricevere una carezza negativa segna il confine tra me e l’altro, permette di distinguere ciò che posso fare e ciò che non posso fare. Sia i permessi che i limiti sono importanti per lo sviluppo sano di un individuo. Ricordiamo che: “Non esiste libertà senza limiti”.

Un’ultima riflessione riguarda la responsabilità (= abilità a rispondere) relativa alle persone coinvolte quando sono in gioco carezze esterne o interpersonali. Colui che fa la carezza ha la responsabilità dei messaggi espliciti e impliciti che invia all’altro che la riceve, come dire che riconosce o meno l’essenza e il valore dell’altro essere umano a cui è diretta la carezza. Colui che riceve la carezza ha dal suo canto la responsabilità di accettarla oppure di rifiutarla ed è ugualmente responsabile dell’emozione e del sentimento che proverà (Moiso e Novellino, 1982). Se ad esempio il mio capo a lavoro mi sgrida: “Sei proprio un incompetente!” sarà mia soltanto la responsabilità di ricevere o meno questa carezza (negativa incondizionata) ed anche l’emozione che proverò in seguito a quelle parole. L’ago della bilancia lo farà il dialogo interno che si svolge dentro di me, anche senza che me ne renda conto. Se io mi dico che “L’ho sempre detto che sono un’incapace, è proprio così!” confermerò e accetterò la carezza che mi è arrivata e mi sentirò di conseguenza. Diversa è la situazione se io mi dico che non sono affatto un incompetente in generale, che rispetto al lavoro che ho svolto avevo appreso le competenze necessarie, quindi mi servirà capire se ho commesso un errore e di che tipo oppure se il capo ha commesso un errore di valutazione. In questo caso non accetterò tout court la carezza del mio capo e valuterò il tempo e la possibilità per chiarire quale sia il problema reale da lui sollevato con quell’affermazione generica e svalutante e come eventualmente risolverlo (trasformando quella carezza incondizionata in carezza condizionata cioè relativa ad un determinato lavoro che ho fatto).

Ultima e non meno importante riflessione riguarda la quantità delle carezze di cui disponiamo. Spesso ci sentiamo deprivati di carezze o con poche carezze da offrire agli altri, eppure i limiti che percepiamo derivano principalmente dalle nostre convinzioni e decisioni restrittive apprese nel corso degli anni e nell’infanzia in modo particolare. Steiner afferma a gran voce che non esistono limiti nella quantità di carezze che possiamo dare, né in quelle che possiamo chiedere e ricevere, almeno se ci rendiamo disponibili e liberi di sentire e di pensare oltre certi schemi e rigidità precostituite.

Note

1 Gestalt è un termine tedesco che identifica il processo di mettere in forma, dare una struttura significativa. Una Gestalt è un fenomeno che diventa “figura” in un dato momento, attira l’attenzione per poi tornare a dissolversi nello “sfondo” mentre emerge una nuova figura.

La terapia della Gestalt (che non è la stessa cosa della Psicologia della Gestalt) nacque con Fritz Perls nel 1947. Paradigma centrale della teoria è il concetto del ciclo dell’istinto o ciclo di formazione e distruzione della Gestalt, paragonato al modello della respirazione naturale nel suo alternare inspirazione ed espirazione.

Il ciclo dell’istinto o ciclo del contatto-ritiro è rappresentato in un modello a sette stadi: riposo o ritiro; sensazione o pre-contatto (impulsi o stimoli interni, fisiologici…); consapevolezza (presa di coscienza, contatto vigile con l’evento); mobilizzazione di sé e delle proprie risorse; azione (fase di contatto della scelta e compimento dell’azione appropriata); contatto finale pieno e vibrante (unisce percezione, movimento, emozione in un’azione unitaria); soddisfazione o post-contatto (è il momento di digestione e assimilazione, di profonda soddisfazione, prima di ritorno nella fase di ritiro, del “vuoto fertile”.

Così si passa dall’iniziale emergere di un bisogno fino alla sua soddisfazione e al momento del ritiro o del riposo; sia che si tratti di un ciclo interno o esterno, di dimensioni micro o macro.

“Questa è la Gestalt: non cambiare ciò che è o desiderare che sia differente, ma ri-stabilire la naturale espressività, mobilità e vividezza delle esperienze momento-per-momento, sia che queste siano in una fase di esplosione o in una di quiete.” [Petruska Clarkson]

Fritz Perls parte dal presupposto che l’organismo ha in sé tutte le potenzialità e capacità di autoregolarsi, all’interno della natura ciclica dell’esperienza umana.

Bibliografia

Goleman D. (1995), Intelligenza emotiva: che cos’è, perché può renderci felici, Rizzoli, Milano, 2001.

Mastromarino R. e Scoliere M., Introduzione all’Analisi Transazionale: “Il modello 101”, IFREP, Roma, 1999.

Moiso C. e Novellino M. (1982), Stati dell’Io: le basi teoriche dell’analisi transazionale integrata, Astrolabio, Roma.

Ricardi F., L’Analisi Transazionale: il sé e l’altro, Xenia, Milano, 1997.

Scilligo P., De Nitto C. (a cura di ) (1995), Antologia II: letture scelte di Terapia della Gestalt, Ifrep, Roma.

Singer S. (1987), La Gestalt: terapia del con-tatto emotivo, Edizioni Mediterranee, Roma, 2004.

Steiner C. con Perry P. (1997), L’alfabeto delle emozioni: come conquistare la competenza emotiva, Sperling & Kupfer, Milano, 1999.

Stewart I. e Joines V. (1987), L’Analisi Transazionale: guida alla psicologia dei rapporti umani, Garzanti, Milano, 2000.

Woollams S. e Brown M. (1978), Analisi Transazionale: psicoterapia della persona e delle relazioni, Cittadella, Assisi, 1990.

Simona Gianchecchi

Nata nel 1973. Fin da piccola affascinata dalle grandi tematiche umanistiche ed esistenziali. Laureata in Psicologia all'Università di Padova nel 1999. Specializzata in Psicoterapia e in Analisi Transazionale nel 2006 a Roma.